Totem

Più di un mese fa uscii dalla opaca porta scorrevole degli Arrivi , aeroporto di Varanasi, India, e Totem era lì ad aspettarmi. L’uomo che mi avrebbe guidato, protetto, consigliato e tolto dalla merda nella quale sono così bravo a ficcarmi, è un ragazzo di poco più di trent’anni. Totem ha le gambe di Chaplin, storte come parentesi piantate su due piedi a papera che sciabattano verso l’esterno a ogni passo, la schiena curva e le braccia incorciate dietro, una mano che tiene delicatamente l’avambraccio. Gli occhiali tondi di Ghandi, capelli e barba lunghi.

Mi riconosce, probabilmente da qualche foto, mi viene incontro e scoprendo un numero imprecisato di denti gettati in bocca a caso, mi abbraccia brevemente ma con calore. Tra poche ore lo lascerò,  gli regalerò la mia kefiah egiziana che mi donò mio padre in uno dei pochi viaggi insieme, quando ancora il mare era agitato e oscuro e i resort sembravano l’unico posto dove ritrovarsi. So già che mi mancherà moltissimo, perché lascerò un amico. Un italiano e un bengoli in mezzo alle acque del Gange che ricordano, dondolando la testa in quel tipico modo indiano lui, e con ampi gesti di braccia e mani io, i film di Haneke e Polansky. Totem ama Pasolini più di Antonioni e Godard più di Truffaut. Totem pesa cinquanta chili, porta dei rayban neri rigati e la penna biro sempre infilata nel collo della maglietta di Tom e Gerry. Totem ha le unghie un po’ lunghe e dopo qualche giorno non proprio in condizioni immacolate, Totem mangia con le mani, mescolando riso, dhal e verdure con le ultime falangi scure e affusolate. Totem è di Calcutta, la famiglia bengalese emigrata con la cesura britannica, ora vive a Bombay. Sono tre anni che non vede i suoi genitori, soffre perché non hanno capito la sua scelta di fare la fame in uno scantinato di un’altra città per inseguire un lavoro nel mondo del cinema che loro non capiscono. A Calcutta Totem insegnava Matematica, era  membro della Società Teologica, dello Smoking Club letterario, passava le giornate tra l’università e i caffè anni ’20 dai soffitti alti e i ventilatori sempre accesi, anneriti, impolverati. Un caffè forte e una pila di libri sotto il pacchetto di sigarette dal pacchetto dorato: poesia in primis, poi Marx, il tuo amato Dostoevskij, trattati di matematica teorica. Totem parla quattro lingue. Ha la pelle di un nero caffè leggero.

Totem l’ho visto piangere per la storia di una donna che abbiamo incontrato lungo il nostro viaggio. Ti sei appartato un attimo, mentre io percepivo solo schegge di luce e realtà, avevi gli occhi pieni di lacrime, Das al tuo fianco col labbro inferiore tutto a singhiozzi, e hai detto “Capisci, non è giusto, questa è la mia gente e non possiamo fare niente per aiutarli. Quanto siamo immensamente fortunati noi”. Poi hai chiesto scusa perchè stai lavorando e non va bene fare così e perdere tempo. Voi siete fortunati? Pensa io, Totem, quanto sono fortunato, io.

Mi ha fatto da interprete, mi ha fatto entrate in luoghi inaccessibili, mi ha sopportato nei momenti di incomprensione totale con tutto.

Ieri inciampiamo in un antichissimo quartiere di Calcutta dove, per diversi mesi all’anno, decine di botteghe artigianali fabbricano partendo dalla materia prima di fango e paglia, le statue divine che verranno gettate nel fiume Gange durante il festival religioso più importante della città. Entra di soppiatto in un buco di creta e sporcizia illuminato meravigliosamente di una luce calda e gialla che si insinua morbida dall’apertura ampia sulla strada e da due neon storti e appesi al soffitto, freddi che sembrano blu. Sembra un film di Refn. Ne esce con un piccolo regalo per me, una statuetta fatta a mano di Shiva.

“Ah, quindi io sarei il tipo che non fa nulla tutto il giorno ma se si incazza distrugge tutto?”

Lui: “No, Shiva è chi può fare tutto quello che vuole”.

Ti porto nel cuore mentre sono di nuovo in un asettico aeroporto. Tu, Boori, suo cugino e Buno. Seduti per terra apriamo una King Fisher e mangiamo quel che per me è impossibile ma fa lo stesso, ci penso domani se trovo un gabinetto. Di ogni singolo ingrediente mi spiegate da dove viene, come si chiama in tre diverse etnie, come si usa e come si coltiva, mentre discutete tra voi su chi ha ragione. Mi avete insegnato ancora una volta quanto siano inutili i pregiudizi e che gemme si nascondano all’ignoranza del mondo.

Mi porto dietro il Gange dell’ Uttar Pradesh, così desolato, arido e bellissimo, circondato da un deserto mistico. Mi porto via la mia rabbia a ogni clacson inferocito e inutile,  ogni battito del mio cuore nell’assoluto silenzio,  ogni onda navigata con te su delle barchette che facevano paura ma erano casa per un giorno (ti ricordi quella che in realtà era usata per trasportare i morti? E quella sulla quale rischiavamo di far esplodere il  serbatoio, tu il fuoco in mano, lo sguardo a punto interrogatio verso il vecchio barcaiolo devoto a Khali – e già avremmo dovuto capire parecchio – e tutti noi alla deriva sulla corrente)

Take care,  amico mio, possiamo fare tutto. E lo faremo.

 

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