27 Mar Day 4 – Alberghi, Psicologi, scontri e la notte dei contrasti.
Mentre satelliti in triangolazione orbitale segnalano 100mila soldati russi in assembramento oltre il confine est, mi sono perso nel cuore del mercato di Petrivka.
Cercavo un kebab di carne di pollo e invece ho trovato una pista da seguire che, se andasse in porto, mi condurrebbe in una fabbrica al confine della Moldavia, dove una famiglia nazionalista Ucraina produce abbigliamento militare. Ci lavorano circa 100 persone. La società dal 2001 ha partecipato a gare statali (appalti) per la fornitura all’esercito ufficiale di Yanucoviych. La ragazza che mi parla è la figlia della famiglia in questione. Mi guarda basso, circondata da un muro di tute mimetiche e anfibi; gestisce il negozio “in città”, un garage di lamiera dove i muri sembrano foreste di nylon e le luci spade neon a soffitto. Sembra un animale esotico, biondo e pallido in mezzo alla vegetazione. La sua famiglia ha vinto qualche appalto, la percentuale di “taxes” (mazzette) arrivava al 20%, da dare sottobanco, ovviamente. Così si vince.
Ora che Yanucoviych ha mollato il trono, la fabbrica continua a fare affari con l’esercito ufficiale e quello paramilitare (nessuna “tassa” da pagare).
Mi sussurra senza vergogna che appoggia la rivoluzione, ha venduto a costi bassissimi abbigliamento e attrezzatura militare ai “ragazzi di Maidan”. Se un nuovo assetto governativo filo russo dovesse prendere piede, il suo negozio potrebbe avere “serie ripercussioni”.
Mi faccio dare l’indirizzo della fabbrica e chiamiamo la mamma. La sento ridere e dire “italianesh fuotuografer”. La mamma dice che deve parlare col marito per decidere se accoglierci o no quando arriveremo, tra tre giorni circa.
Nessuno parla inglese e avremo bisogno più che mai della nostra Fixer, che proprio stasera da forfait. Malata. Ottimo, ne troviamo un’altra in due ore, si parte domani lo stesso.
Stamattina andiamo a Maidan, passando da chiese ortodosse e mercatini. C’è un battesimo. I bambini piangono tutti uguali.
Mente Stefano rastrella ancora Maidan coi militanti che gli regalano the e rosari ortodossi
mi infilo nientepopodimeno che all’ Intercontinental Hotel. Un palazzo a cinque stelle. Chiedo del direttore perché “devo fotografare i ricchi che se ne sbattono di quello che sta succedendo a trecento metri da loro.” Ovviamente l’ho presa un po’ più alla larga, ma riesco a farmi accogliere e mi offrono persino “quello che voglio”, peccato che ho già mangiato, quindi acqua, grazie.
Non ottengo assolutamente il permesso nemmeno di respirare in presenza dei clienti, ma lo faccio parlare e mi dice che le presenze in hotel sono calate, ma non gli incassi. Meno russi, più giornalisti.
Dopo un paio di battute sulla Juve (scusa, nonno, giuro che la uso come aiutino solo in casi estremi, ma se dico “Toro” non credo servirebbe a molto) e sul gelato italiano, riesco a farmi accompagnare quasi per mano nelle sale del piano terra e fotografo tutto il personale presente. Consierge, baristi, camerieri e un po’ di arredo lievemente kitsch.
Scendo a Maidan, ho fame.
Entro da McDonald’s perché è l’unica cosa aperta. Ah, ok, non c’è più McDonald’s.
Quello che mi si presenta davanti, entrando in un locale spoglio, senza più arredo, solo con le grafiche a muro dove il bacon sembra stupidamente buonissimo è adesso un consultorio per assistenza psicologica.
Da qualche settimana un gruppo di psicologi volontari usano il Mc Donald’s di Maidan come centro di aiuto per persone vittime di shock post traumatico, familiari delle vittime, cittadini spaventati per il futuro. E il contrasto di questo popolo si fa sempre più assurdo.
Parlo e fotografo Natalya Stepuk, queste le cifre: da 100 a 350 volontari, 25000 persone aiutate, tre sedi cambiate a Kiev, sei sedi nelle periferie e nessuna idea di quando smetteranno: “fin quando ci sarà bisogno”.
Ai tavoli in laminato rovere, uguali a quelli di tutti i “Mac” del mondo, non ci sono corpi ingozzati di patatine, ma donne e uomini con occhi lucidi, non per la cipolla, ma perché hanno perso un figlio in piazza o perché non si fidano del nuovo governo transitorio e non hanno nessuno con cui parlare.
Parlando poi con Alexei, giovanissimo fotogiornalista appena tornato dalla Crimea capisco (e chiedo anche stupidamente, a volte) che chi ha ucciso più di duecento persone a Maidan da novembre a febbraio sono piccoli gruppi di corpi speciali dell’esercito ucraino, pagati chissà da chi. Adesso sono tutti in Crimea a “fare il lavoro sporco”. La potenza di fuoco espressa dall’esercito contro i Maidan, nei giorni di rivolta, era talmente forte che, nonostante le barricate erette dai ragazzi, se non ci fossero stati tanti soldati Ucraini che all’ultimo momento non se la sono sentita di sparare sui loro compatrioti, i morti sarebbero stati migliaia.
Mi arriva un messaggio di Stefano mentre cerco di convincere la psicologa a farmi fotografare il MacDonald’s (sembra assurdo, sì lo so): “tutti al parlamento, possibili scontri.”
Ci aggreghiamo a un gruppo di Georgiani duri come il marmo, mazze di legno in mano, giubbotti antiproiettile, piccoli, scuri.
Gli chiedo il perché sono in piazza Maidan da mesi con gli ucraini: “Andrej” unisce l’indice destro con quello sinistro lungo le falangi piatte e sporche: “perché Georgiani e Ucraini sono amici così, abbiamo un nemico comune, e lo combatteremo insieme”.
Arriviamo al parlamento e la folla assembrata davanti è un misto di donne, uomini, vecchi e tute mimetiche. Qualcuno parla, qualcuno urla cose incomprensibili e tutti rispondono in coro.
L’adrenalina sale dai polpacci al cervello, ci dividiamo e mi ritrovo dietro il cordone di sicurezza; facce rilassate ma cattive, determinate. Pacche sulle spalle e sorrisi. Scatto da vicinissimo e sbaglio a ripetere l’operazione dopo pochi minuti, perché uno dei più duri, casco in testa e occhi di fuoco, cambia espressione più velocemente del mio otturatore. Punta il dito alla camera e urla “nieeet foto, delete!”
Ok, capo, sono il formattatore di schede CF più veloce della galassia.
Comunque ne ho già in cassa qualche decina e torno giù a Maidan.
In serata dopo un Borsc in ostello il mio appuntamento con Vera al club salta, oggi tutto salta.
Mi dice che il nostro contatto interno è malato e dobbiamo rimandare a domani.
Non voglio lasciare la città senza essere entrato in qualche locale da ricconi per continuare il progetto e prendo un taxi, mi faccio dare l’indirizzo più posh della città ed eccomi lì.
Passo dal parlamento, c’è ancora gente che urla alla luce del fuoco e in poche centinaia di metri, dal mio finestrino vedo i colori cambiare. I neon del centro, sono l’unica luce che illumina il nero assoluto dei suv, delle Porsche, dei Mercedes coi vetri oscurati.
Scendo dal taxi e la musica slava ancora mi rimane un po’ attaccata ai capelli dietro le orecchie quando chiedo del “direttore” del club al gorilla in maglietta all’ingresso.
“Aspetta”, mi dice. No problem, “take your Time, mate”.
Aspetto eccome, al freddo, col flash in tasca insieme alle mani.
Entrano clienti che sono accoppiati come gangster vestiti male e zoccole a carnevale. Due mi guardano, poi lui guarda lei, alza la testa leggermente per farle controllare le narici. “Tutto a posto caro, puoi entrare.”
Esce la direttrice, pantera nera nella notte, faccio in tempo a dire sei parole e mostrarle il tesserino che mi interrompe senza preavviso: “Niet.” (eccheppalle oggi…).
Torno sui miei passi, mi accendo una sigaretta e c’è un palazzo che si illumina tutto, ma proprio tutto, di neon cirillici. Sembra Tokyo anche se non ci sono mai stato.
Trovo una Mazda nera con un pezzo di pane al volante e una luce “taxi” accesa sul tetto.
Salgo, torno in ostello.
Guardo fuori, c’è un negozio di Chanel.
Non lo capisco ancora questo paese, ma ci sono vicino perché sta cominciando a commuoveremi.
Molte cose accomunano l’uomo che vedo in queste terre e quello che vedo uscendo in San Salvario. Ci sono i poveri e i ricchi, quelli impegnati e quelli meno, quelli veri e quelli superficiali e forse anche i buoni e i cattivi.
Ma qui, mi sembra, ogni accezione va aumentata all’estremo.
Un bambino può salire su un carro armato e al mercato vendono i pesci pescati dai poveri nel rigagnolo sotto le case popolari.
Chi lotta, lotta violentemente. Chi se ne frega, se ne frega del Tutto.
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