Day 7 – L’arizona, Klyčko e un piccione a Lviv.

Day 7 – L’arizona, Klyčko e un piccione a Lviv.

Sento ancora l’odore della resina dei pini, i tornanti perfettamente raggiati tra l’erba bassa. Stavamo per arrivare a Flagstaff, un coltello gelido e verticale tra Arizona e New Mexico. Alex mi guarda, ha un sorriso sornione: “Dammi la macchina fotografica piccola, ‘vecio!”.

Giorni dopo scoprii che si era registrato mentre correva, il fiato regolare, un sorriso sotto la barba dopo settimane di sofferenze atroci: “Oggi – ricordo che sentii la sua voce gracchiare dai piccoli altoparlanti – la qualità dei miei pensieri è così alta che tutto ciò che penso tende a realizzarsi”.

Noi, invece oggi entriamo a Livl (Leopoli), una perla diroccata di architettura polacco-austroungarica, con l’eleganza di un branco di bufali in fuga.
Gli occhi pesti, la fame, le dita anchilosate sul volante.
Troviamo tramite una serie di giochi di prestigio che non voglio ricordare una casa in affitto per una notte, si affaccia magicamente sulla piazza principale con delle finestre immense e luminose. Sotto ci sono i cavalli e i turisti, le rotaie del tram e un pianoforte giallo e rosso lasciato lì a disposizione di tutti. Un ragazzino ucraino suona Bhrams.
Dovrei capire da questo segnale che qualcosa mi accadrà, legato alla magia e all’istinto, ma non ci faccio caso perché la mia attenzione è catturata dal piumino sotto il quale dovrei dormire: ah, che carini… è in tema, è mimetico! No, non è mimetico. Ok, tiro fuori dallo zaino il sacco-lenzuolo.

Usciamo e iniziamo a vagare per i viottoli acciottolati, le piazzette con gli alberi appena acerbi e le decine di chiese costruite e poi distrutte, spostate, rapite e sconsacrate. C’è un misto di neoclassico sporco, tardo gotico e colori leggeri che sembrano un porto ligure sotto una luce freddissima, nordica. Mi brucio la fronte in ventisette minuti netti.

Sotto il monumento dedicato al seme della letteratura ucraina, Taras Hryhorovyč Ševčenko, le ombre di un grappolo di persone chine sui loro pensieri.
Questa città è la quintessenza dello spirito Ucraino, è “occidentale”, a pochi chilometri soffia il vento Polacco. Moltissimi, da qui, sono partiti per Kiev non sono mai tornati.

Sono svogliato, la qualità dei miei pensieri è bassa, esco da casa solo con l’ FM2 a pellicola e una compattina in tasca. Ho bisogno di stare un po’ solo per perdermi e pensare  e lo zaino è l’ultima cosa che voglio portarmi dietro (e Dio sa quanto te ne pentirai, imbecille!). La fotografia è proprio un’affare solitario, se non fossi qui con Stefano, che è grande uomo e buono come il pane, avrei già dato di matto perché si finisce, ovviamente, a fotografare la stessa cosa, poi chi va a dire: “Questo l’ho visto prima io?!”

Lo lascio con la nostra fixer Christina e suo marito perché possano aiutarlo nelle traduzioni in mezzo ai vecchietti mimetici in piazza.
Ci diamo il cinque incluso di pugnetto e appuntamento per qualche ora dopo, starnutisco. Qualcosa mi aspetta, lo sento, mi infilo le auricolari e ascolto l’ultimo del Vasco Brondi nazionale come nei deserti Americani, non ho mai capito il perché di questa associazione.
Quel disco, il primo, l’ho tritato negli Stati Uniti ma secondo me questo è inutile come il secondo. E invece fila liscio, c’è dell’elettronica sommessa, dimenticata ma presente e una nota dolce di fondo, quasi serena. Pensavo peggio.
Entro in trance e continuo a camminare, mi ritrovo come al solito in viuzze fuori dal centro, un piccione ucraino entra in un cortile basso.
Lo seguo come farebbe lui con una briciola di pane, con passo incerto e la testa a struzzo, avanti e indietro, ma io almeno sto ascoltando della musica.
Questo cortile ha qualcosa di magico, c’è un murales, una tettoia lurida e una porta di lamiera grigia semi aperta.
Non so perché (o meglio lo so ma tanto faccio sempre così) ma entro. C’è uno stretto atrio di legno e poi una stanza. Il piccione rimane fuori, manco ci fosse il cartello “io non posso entrare”, coi primi passi mi tolgo le cuffie che continuano a ronzare penzoloni sul petto solo frequenze altissime.
E i miei sensi si attivano all’istante, torno in vita, dalla musica ne esce un’altra più rozza, una piccola radio nella stanza gialla.
E poi odori, forti, acidi.
E ancora suoni, secchi e potenti unirsi a gemiti, respiri e urla slave.
– Oddio, vecchio, e ora che si fa? –
Un’ombra percorre l’aria, entra e esce dallo specchio visivo in controluce della porta che affaccia sul vano di fronte a me; è altissima, veloce, vestita di nero. Ha delle mani enormi. Penso subito al povero Chunk dei Goonies quando incontra Sloth nello scantinato della Banda Fratelli.
A un tratto unisco tutti i pezzi: una palestra di pugilato.
Non ci credo, tremo, ormai sono dentro e tutti hanno smesso di fare a pugni con l’aria e si girano a guardarmi. C’è un vecchio, gobbo e duro, con un cronometro in mano. Sorrido di un sorriso idiota: “Hello… Italian Photojournalist, photo… photo…”. Per qualche istante nell’aria rimane solo la musica della radio.

Non so cosa accade dopo, lo vedrò a Torino in camera oscura perché mi maledico mentre scatto come un bambino all’asilo sulla vecchia Nikon ma, dio, quant’è bello scoprire di essere finiti nella palestra dove da juniores si è allenato Vitalij Klyčko, presidente ucraino post rivoluzione di Maidan e ex campione del mondo.
Ho un rullo dentro a 400 ISO e ovviamente si mette a ridere per la poca luce delle plafoniere al neon di muffa a soffitto. Lo scarico in sette minuti e per fortuna ne ho un altro in tasca, lo tiro a 1600 e apro tutto a 2.8.
Gli passo in mezzo a ‘sti giganti e penso che se sbaglio un passo mi rompo io naso (di nuovo) ma quando il vecchio allenatore con gli occhi lucidi mi porta nello scantinato parlando in ucraino capisco che sono arrivato al capolinea. Mi tremano le gambe e questa stanzetta puzzosa è piena di trofei, c’è un telefono con una penna di fianco, un divano e un televisore. Tutto legno attorno a noi. Apre un armadietto e prende un libro con delle mani che mi trasformano in un secondo in Paris Hilton e mi mostra una foto.
C’è lui, capisco, e la nazionale ucraina di pugilato, 1989. Un dito insiste su un volto, prima fila a destra: Klyčko.

Cammino indietro e mi volto sessanta volte per rivedere il cortile, i ragazzi li sento ancora allenarsi dentro, i piccioni fuori.
Cerco di tornare in centro ma la bussola è fuori uso. Vorrei della frutta perché sto starnutendo ed è l’unico segnale fisico che percepisco. Mi giro, c’è un negozio di frutta. Mandarini e banana, grazie.
Poi vorrei tanto rilassarmi e vedere l’opera di Lviv, entro. Giornalista, grazie. Poltrona gratis, inizia dopo sette minuti la Tosca.
Poi vorrei ricomprare dei rullini, ah guarda c’è un negozio proprio lì davanti.
Finiamo per cenare in un ristorante di legno scuro, un pollo gigante con delle ossa da T-Rex e patate.
Il piumino mimetico mi aspetta unto e sugoso, ma se lo volessi davvero diventerebbe lindo come la neve. Basta immaginarlo.

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