03 Apr Day 8-9 : Il centro delle cose e un pesce affumicato.
Mi butto alle spalle Lviv e mi prendo due giorni di tempo.
Non scrivo, non penso, guardo e “lascio che le cose mi portino altrove”, come cantava il Castoldi.
Le corde strette del lavoro da Clark Kent torinese mi stringono il collo, mi ricordano che non ho palle, fama o soldi per poter fare questa vita, per scrivere e fotografare ciò che vedo, per raccontare storie e sopratutto per viverle. Forse è tempo di tornare, di rimettersi a testa bassa a fare siti internet e rispondere gentilmente al telefono, per quanto sia possibile.
Lucidare le maniglie logore delle case di moda, fare gli aperitivi e detestare incoerentemente l’intellighenzia alternafiga, col cane, la casa ottocentesca in corso Vittorio e spesa fatta a porta palazzo.
Però ci sono i chilometri da fare, tanti. Attraversare un paese sconosciuto in orizzontale, per vedere se e come cambia.
Non c’è nulla che voglia ricordare su questo stupido diario che vada oltre a:
1. Le strade sono o sterrate o un campo minato e devi frenare bruscamente se non vuoi spaccare come un lego la macchina.
2. L’Ovest e il centro dell’Ucraina è un piatto povero gustato freddo, a Tre gradi celsius costanti, per l’esattezza.
3. Entrare di notte nei paesi per dormire, come a Kolomya, fa una paura che dici: ok, adesso ci spolpano come un ossobuco. Poi, al mattino con la luce, scopri che le strade sono sterrate perché non ci sono soldi e che magari quello è il comune con meno criminalità di tutta l’ucraina. E la gente lascia le porte di casa aperte. Di sera, al buio, si mettono la giacca migliore e camminano fino all’unico bar del paese, impolverandosi i pantaloni sopra le scarpe per andare a bere Vodka. Mezzo litro a testa, circa, dai quindici anni in su.
Scrivo da Kharkiv, estremo oriente, pochi chilometri dal confine russo, e di ciò che è stato degli ultimi due giorni ricorderò solo una grande lezione di vita.
In macchina, stanco e con la testa nel posto sbagliato, stavo osservando immobile la rotellina colorata di caricamento di gmail. Aspettavo notizie dal lavoro. Stefano “Cristina” e “Ciro” erano usciti a comprare del pane per accompagnare un pesce affumicato comprato poco prima in una casa di pescatori a vicino al fiume, a Kirovograd.
Mentre osservo lo schermo con lo sguardo di un pesce rosso, mi chiedo perché non esco dalla macchina e faccio un giretto. Perché fa freddissimo e non c’è più niente da fotografare, mi dico. Nulla che valga la pena, non sei nessuno, che cazzo ci fai qui? Torna a casa a lavorare che devi pagare l’affitto, idiota. Un raggio di luce riflette se stesso tra specchietto retrovisore e iPad. In uno sforzo enorme mi obbligo a muovere il braccio destro e aprire la portiera, la vecchia 5D pesa come un sommergibile russo con dentro Sean Connery.
Le pupille si ritraggono al sole nucleare della steppa ucraina come due gatti neri sotto la doccia, li abbasso per aiutarli e vedo un’ombra lenta proiettata lunga che attraversa il mio campo visivo.
È una vecchia. Contadina e curva con un sacchetto della spesa di tela blu a righini rossi.
Mi ritrovo pochi metri dopo al suo fianco con la sua borsa in mano. Le faccio capire a gesti che voglio solo aiutarla, non rubarle le patate. Mi fa dei segni con la mano, indica lontano. Qui le persone non indicano col dito indice e le altre chiuse a pugno, come noi. Aprono tutta la mano, come una paletta di un vigile, come i pakistani e i popoli del ladakh. Capisco che mi dice che abita lontano, le dico con l’accento più russo che posso sfoderare: “uuoocheiy, nuo problem!”.
E camminiamo.
Mi sporco subito del peccato dei fotografi, perché oltre a non ascoltare e capire una parola, mi concentro sul suo viso, con la coda dell’occhio vedo che è circondato da una folta pelliccia del cappuccio del giaccone marrone, i denti incisivi dell’arcata inferiore sono tutti d’oro e i pantaloni sono quelli di una tuta blu. Cerco un’ombra davanti a noi per poterla fotografare senza i riflessi del sole sulla pelle.
Ci provo di nascosto, ma urla terrorizzata. Di fotografia non se ne parla. Va bene, non importa.
Cristina e Stefano escono dal negozio e io sono già a venti metri, gli faccio segno di correre subito verso di me.
Cristina inizia a scrivere e parlare con Vira – così scopro che si chiama questa meravigliosa creatura di purezza ucraina – che ha settantatré anni, è nata e morirà esattamente dove siamo noi ora.
D’estate il grano si muove col vento ed è così giallo che anche l’aria, dopo che gli passa in mezzo, colora il cielo.
Suo padre è tornato dalla Germania senza una gamba e con la morte negli occhi, era un soldato russo ucraino. Armata Rossa, 1942. Lei lo ricorda come un eroe sconfitto perché la madre patria della falce e del martello era così distante da averlo dimenticato.
Le accenniamo velocemente il perché del nostro essere in mezzo a quel nulla, in mezzo alle case con i polli e i maiali, ai fiumi immensi e al cielo che diventa sempre più profondo se guardi verso Mosca.
Vogliamo andare ad est, e capire cosa succede. Fotografare un paese sull’orlo di una guerra e le sue infinite differenze per raccontarlo a un’altro paese, il nostro che ha molto più soldi e meno coraggio.
Improvvisamente rimane indietro di qualche passo, è alla mia destra e mi giro per vedere se sta bene. Sento un gemito e le mani le coprono il volto. Inizia a piangere e a guardarmi negli occhi, una mano esce dalla sua tasca e mi accarezza il viso. Con l’altra raccoglie le lacrime tra indice e pollice e le getta al suolo come volesse seminarle per sempre nelle crepe grandi dell’asfalto.
Guardo Cristina aspettando col cuore chiuso di capire cosa stia dicendo tra un singhiozzo e l’altro:
“Figlio mio, voi siete i miei figli, perché la nostra Terra, di noi vecchi, è una sola, in tutto il mondo. Io vi prego, non ho bisogno di soldi, ho vissuto qui tutta la vita. Tutti i giorni piango per i ragazzi di Maidan. Vi prego, figli miei, posso sopportare tutto ma non la Guerra. Non voglio più vedere la guerra”.
Pochi chilometri dopo, in silenzio, taglio con un bellissimo coltellino svizzero rosso fette sottili e perfettamente affumicate di Lyasch, un pesce d’acqua dolce, l’acqua del Dnipro, che taglia in due come un’ascia questo paese così diverso, così Russo, così Ucraino.
Il resto sono ancora chilometri, e una luce talmente bella che illumina dalle nostre spalle l’est, la Russia, in un paesaggio dolce, quasi morbido.
Siamo vicini, tutto è al contrario di come immaginavo. Le macchine sono più nuove, le strade più lisce, le scritte più grosse. Ci sono immani colate di cemento con falce e martello su stelle rosse che brillano al sole. Ci sono delle centrali nucleari dentro le città. Siamo ancora in Ucraina ma il “fratello maggiore” si fa sentire. Gli vuoi bene lo stesso anche se è ingiusto e ti fa male, non ti ruba il cuore perché lo possiede da
No Comments